Ritornare ai testi. In ricordo di Luisa Mangoni (1941-2014) di Tommaso Munari
Complimentandosi con lei per il saggio introduttivo alla raccolta di scritti di storia contemporanea di Delio Cantimori pubblicata nel 1991, l’11 aprile di quell’anno Giulio Bollati scriveva a Luisa Mangoni:
Altro tuo merito non da poco – anche se va a scapito della facilità di lettura – è l’estremo rigore con cui accetti, traducendolo e annotandolo solo il minimo indispensabile, il linguaggio di Cantimori e lo segui dall’interno nei tempestosi meandri di una logica fortemente segnata in senso personale.1
Con questa osservazione Bollati mostrava di aver colto alla perfezione la chiave di un metodo di ricerca che sintetizzerei così: Mangoni parlava la lingua delle sue fonti. Dalle fonti la storica traeva infatti non solo dati, notizie e testimonianze, ma anche parole, formule e categorie. Oltre a sollecitare il continuo confronto con i documenti, le sue opere invitano a calarsi nel contesto in cui furono prodotti, a comprenderli, per così dire, dall’interno.
Sulla scorta di una distinzione proposta dal linguista Kenneth Pike, Carlo Ginzburg ha spesso sottolineato l’importanza di far dialogare una prospettiva di ricerca incentrata sulle categorie degli osservatori (etic, da phonetics) con una incentrata su quelle degli attori (emic, da phonemics).2 Per Mangoni, invece, le categorie degli storici devono necessariamente coincidere con quelle delle fonti, pena il fraintendimento di queste ultime. Ne discende che lo studioso ha il dovere di porsi al livello dei documenti, accettarne il «linguaggio» e penetrarne i «meandri», tempestosi o no che siano.
La monumentale storia della casa editrice Einaudi che pubblicò nel 1999 si apre così:
Nel giugno del 1940 Leone Ginzburg veniva inviato al confino a Pizzoli, in Abruzzo. Lasciava in sospeso, tra le molte cose incompiute, anche quel progetto editoriale della casa editrice Einaudi che aveva contribuito a delineare e nel quale aveva progressivamente investito la maggior parte del suo impegno.Si entra subito nel vivo di una ricerca che si chiude, mille pagine dopo, in modo altrettanto netto: «Un’altra stagione, e un’altra storia, della cultura italiana e della Einaudi si apriva con un libro “estremo” [L’istituzione negata a cura di Franco Basaglia] che sembrava cogliere tutti i succhi di un sessantotto che stava per cominciare».3 Tra questi due estremi si snoda una storia trentennale ricostruita in modo rigorosamente induttivo in cui tutte le questioni affrontate nel libro discendono da una fitta trama di documenti e l’unica chiave fornita al lettore è racchiusa nell’efficace titolo Pensare i libri.
Adriano Prosperi ha parlato del suo «modo di comprendere indagando»,4 ma le parole più adatte per descrivere il metodo di Mangoni mi sembrano quelle di Franco Venturi da lei stessa citate in una relazione del 2007 sulle sue lettere da Mosca: «narrare, col massimo di ampiezza possibile, citando il più largamente possibile i testi e i documenti, facendo sentire la loro autentica voce, liberandoli da ogni incrostazione e sovrapposizione ideologica posteriore».5 Solo se liberati da queste incrostazioni, i documenti tornano a parlarci e a suggerirci nuove interpretazioni.
Le categorie di «cesarismo» e «bonapartismo» utilizzate da Roberto Michels nel 1911 per descrivere l’organizzazione dei partiti moderni;6 la distinzione fra «fuorusciti» ed «estromessi» proposta da Carlo Rosselli in una lettera del 1929 alla madre Amelia;7 la formula «interventismo della cultura» rispolverata da Giuseppe Bottai nell’imminenza dell’entrata in guerra dell’Italia;8 la questione dell’«incivilimento» degli italiani sollevata da Leone Ginzburg in una lettera a Benedetto Croce del 1943;9 l’espressione «generazione perduta» impiegata da Giaime Pintor per sottolineare la responsabilità storica del fascismo;10 la «necessità della cronaca» rivendicata da Gianfranco Piazzesi e lo speculare «bisogno di filologia» avvertito da Antonio La Penna nell’immediato dopoguerra:11 sono tutte formule, distinzioni o categorie che Mangoni rintracciava negli epistolari o nelle riviste del tempo, e poi analizzava, discuteva e tematizzava nei suoi saggi.
E dalle fonti traeva anche le fondamentali periodizzazioni, talvolta spiazzanti ma sempre persuasive. Lei stessa, del resto, in un saggio del 1996 non solo segnalava la difficoltà di porre scansioni cronologiche al di fuori di uno specifico tema di studio, ma sottolineava che la percezione che gli scrittori hanno del proprio tempo «è parte costitutiva di un discorso di storia della cultura e interferisce perciò sulle sue stesse periodizzazioni, fino, per certi versi, a condizionarle».12 Non è un caso che sia un dibattito editoriale – quello del 1963 sull’inchiesta di Goffredo Fofi sull’Immigrazione meridionale a Torino – a determinare il termine ad quem della sua storia dell’Einaudi.
L’influenza che esercitò su di lei l’incontro con Delio Cantimori e Renzo De Felice, conosciuti all’Istituto italiano per gli Studi storici di Napoli nel 1964-65, appare evidente sia sul piano metodologico sia su quello tematico. Meno immediata, ma altrettanto importante fu quella del filologo Salvatore Battaglia, con il quale si laureò all’Università di Napoli nel 1964 con una tesi su Vasco Pratolini (ma il prescelto era stato inizialmente Francesco Algarotti). Com’è noto, Battaglia è stato l’ideatore e il direttore del Grande dizionario della lingua italiana che, sul modello del vocabolario di Tommaseo, fornisce non solo la definizione di ciascuna parola, ma anche le sue attestazioni. Ogni vocabolo, attraverso ampie e compiute citazioni degli autori che lo hanno utilizzato nel corso del tempo, viene sottratto all’«immobile astoricità» del suo significato corrente «per sentirsi rivivere e ripalpitare d’attualità nel corpo dell’espressione, dove soltanto gli è possibile caratterizzarsi come frammento di vita concreta, evocazione dell’intelletto, immagine di poesia».13 Collocare la parola nel corpo dell’espressione e, analogamente, il testo nel suo contesto storico sembra essere anche la costante preoccupazione dell’autrice di L’interventismo della cultura (1974), Una crisi di fine secolo (1985), In partibus infidelium (1989) e Pensare i libri(1999).
Mangoni ereditò da Battaglia anche una certa insofferenza per il presente storico, che attualizza e appiattisce. Era solita ripetere che i documenti ci parlano all’imperfetto, il quale consente allo storico di muoversi liberamente nel tempo, remoto o prossimo che sia, e ritornare al presente solo nel momento interpretativo, come dimostra ad esempio questa pagina di Pensare i libri: «Uno dei fattori che hanno contribuito a innestare profondamente la storia della Einaudi nella cultura italiana, ben al di là dei confini di un lavoro editoriale, è anche la sua capacità di intessere la propria memoria di gruppo con una memoria collettiva. Assieme alle riunioni settimanali che costituivano una sorta di laboratorio, è proprio questa memoria interna tenacemente trasmessa e resa comune, a fare dell’Einaudi un unicum nel panorama editoriale di quegli anni. Nomi come quelli di Leone Ginzburg o di Giaime Pintor sarebbero probabilmente scomparsi, come tanti altri ne scomparvero, senza questa cura assidua da parte dell’Einaudi nel tutelare e trasmettere qualcosa che era sentito come patrimonio comune, la cui assimilazione era anche parte del processo di integrazione dei nuovi redattori».14
È forse ovvio ma non inutile sottolineare come un’osservazione di questo tipo possa derivare solo da uno studio approfondito dei percorsi individuali e dal netto rifiuto di qualunque semplificazione, come conferma anche la sua recensione a un saggio di Mirella Serri su Giaime Pintor, nel quale veniva rimarcato in modo tendenzioso il suo iniziale consenso al fascismo.15
Come dovrebbe fare ogni buon recensore, per prima cosa Mangoni descriveva il contenuto del libro; poi lo collocava nel contesto storiografico; quindi elencava le fonti utilizzate dall’autrice, fra cui gli scritti politici e letterari del Sangue d’Europa (1950), le pagine autobiografiche del Doppio diario (1978) e alcuni documenti inediti sui tre convegni dell’Unione degli scrittori europei tenutisi a Weimar tra il 1941 e il 1942, all’ultimo dei quali aveva partecipato anche Pintor. Fatto noto da tempo, che tuttavia Serri utilizzava per avvalorare la tesi che il suo antifascismo era maturato solo dopo l’8 settembre e che la sua immagine di eroe della Resistenza andava quanto meno ridimensionata.
La recensione di Mangoni si chiudeva con questa affermazione:
Appiattiti sul fascismo secondo quella che sta divenendo una nuova vulgata tesa a sostituire l’altra che li appiattiva sull’antifascismo, si rischia ancora di perdere quanto di inquieto ed inquietante, di faticoso e di articolato questi itinerari di uomini, non eroi per sempre ma tanto meno “eroi per caso”, ci testimoniano. La ricchezza del Doppio diario finirebbe così con l’andare smarrita, ma non fino al punto da consentire con il rammarico che oggi [il fratello] Luigi Pintor dichiara di provare per averlo fatto pubblicare. Di questo e della possibilità che ci ha dato e ci dà di tornare ai testi gli siamo ancora grati.16Ancora un volta l’irrinunciabile rinvio ai testi e l’ammonimento che sempre da lì dobbiamo ripartire.
Note
1 La lettera è riprodotta nell’opuscolo fuori commercio Giulio Bollati. Lo studioso, l’editore, Torino, Bollati Boringhieri, 2002, alle pp. 102-103. Il volume di D. Cantimori è Politica e storia contemporanea. Scritti (1927-1942), a cura di L. Mangoni, Torino, Einaudi, 1991. Il saggio introduttivo di Mangoni, intitolato Europa sotterranea, è alle pp. XIII-XLII.
2 C. Ginzburg, Le nostre parole, e le loro. Una riflessione sul mestiere di storico, oggi [2012], in Id., La lettera uccide, Milano, Adelphi, 2021, pp. 69-86.
3 L. Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, pp. 3 e 944.
4 A. Prosperi, Leone Ginzburg nell’opera di Marisa Mangoni, in «Studi storici», 3, 2015, Luisa Mangoni storica della cultura, p. 601.
5 F. Venturi, Il populismo russo, 3 voll., Torino, Einaudi, 1972, I, pp. XIV-XV. Il passo è citato da Mangoni in Le lettere da Mosca di Franco Venturi: un percorso (1947-1950), Milano, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli Papers, 2007, p. 5.
6 L. Mangoni, Cesarismo, Bonapartismo, Fascismo, in «Studi storici», 3, 1976, pp. 41-61.
7 L. Mangoni, Ebraismo e antifascismo, in «Studi storici», 3, 2006, pp. 65-79.
8 L. Mangoni, L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1974, pp. 3-92.
9 L. Mangoni, Introduzione, in L. Ginzburg, Lettere dal confino 1940-1943, a cura di L. Mangoni, Torino, Einaudi, 2004, pp. VII-XX.
10 L. Mangoni, Pensare i libri cit., pp. 166-283.
11 L. Mangoni, Civiltà della crisi. Gli intellettuali tra fascismo e antifascismo, in Storia dell’Italia repubblicana, I: La costruzione della democrazia. Dalla caduta del fascismo agli anni Cinquanta, Torino, Einaudi, 1994, pp. 617-718.
12 L. Mangoni, La cultura: periodizzazioni e apocalissi, in Novecento. I tempi della storia, a cura di C. Pavone, Roma, Donzelli, 1997, p. 93.
13 S. Battaglia, Presentazione, in Grande dizionario della lingua italiana, vol. I, Torino, Utet, 1961, pp. V-VI.
14 L. Mangoni, Pensare i libri cit., p. 849.
15 M. Serri, Il breve viaggio. Giaime Pintor nella Weimar nazista, Venezia, Marsilio, 2002.
16 L. Mangoni, Giaime Pintor eroe non per caso, in «La Repubblica», 2 giugno 2002.